Cara tempesta,
ho paura del mio buio ma ho bisogno del tuo sogno. Io desidero e da quando ti conosco ho un impaziente e preoccupato pensiero costante: vorrei ricordare sempre quali sono tutte le cose che sono passate attraverso i miei occhi di questo tempo. E’ tutto lento e senza viaggi in scatola, fatto di lenzuola e giri lunghissimi di pensieri, voli automatici in altri luoghi, voli incontrollabili di te, voli che non posso controllare.
Il mio diario di bordo conta 88 giorni circa, e io sento molto di questi cumuli di ore tra le dita. Oggi che sono così blu e il cuore mi si sgonfia ripiegandosi su di sé, ho un bisogno vago di ricostruire, ripercorrere, come in tutti i silenzi al buio – di quel buio così denso che io nemmeno posso immaginare il tuo sorriso.
Allora eccoci ai piedi del mio letto a bere due birre e a dire cazzate, a sporgerci sulle storie che si raccontano gli estranei, e senza il minimo presagio di una tempesta all’orizzonte. Mica sapevo che ti prudevano le mani e non immaginavo di far uscire la mia leggerezza dal garage, proprio là e all’improvviso, dopo lutti e bagni purificanti.
Io non sapevo niente dei tuoi sogni e non pensavo mai a domani, mi ricordo che non sapevo mai di preciso che ora fosse e che sudavo da sola nel letto, paga d’essere la mia regina. Ma al giorno uno, tu sporta sulla mia anima solo attraverso l’osservazione accurata dei miei movimenti, e l’ascolto pacato dei miei punti di vista, mi hai detto che avevo fatto qualcosa di molto bello e io – come mi è capitato spesso con te – non me ne ero accorta. Le notti sono più lunghe quando le confondi col giorno, e a me il giorno due è parso una regione senza confini e mi è parso che tu fossi, senza troppa fatica, bellissima. Mi sono dimenticata di tutto senza scordarmi chi ero, senza risparmiarmi di avvicinare lo specchio a noi e dirti: guardami, ma guardami bene. Oltre al cuore ripieno ci sono cose che ammaliano ma affaticano, e desideri che rimbalzano dalla gola al mio corpo, chiedendomi rispetto.
Dopo due giorni ancora, era primavera, al centro del più freddo e imprevedibile degli inverni.
Come sono diversi, cara mia tempesta, il capriccio di tanti anni fa e i capricci di adesso ma benedetta la tua somiglianza incredibile con le cose che mi piacciono e che mi trascinano, benedette certe risate che fanno dimenticare le urla, e benedetta tutta la paura che mi fa questo sentirmi così stupida dopo essermi vista invincibile.
Ho ricostruito con la pancia, io che non so vivere con la pancia e ho trovato parole che non potevano essere d’altri se non tue. In ordine sparso: evviva la complicità e le bottiglie di vino rosso che ci fanno diventare cani affamati ai piedi di un letto e dentro il blu delle lenzuola, evviva il saper tremare e dire cose all’improvviso, il saper fare bene l’amore, il sapersi prendere il sole delle giornate che aspettano il momento giusto e dire senza fatica che non esiste un momento adatto ma per certo c’è un momento che voglio.
E volere, adesso, è come avere sete, in un rimescolamento casuale dei nostri indumenti, in un’irresponsabile immersione quotidiana degli occhi nei nostri occhi, nel silenzio lunghissimo a cui mi costringi e nelle parole a cui ti abituo. Faccio fatica a contenerti nel mio modo di volerti che è molto franco ma anche controverso e capace di aggirarmi e farmi conoscere tremolii improvvisi delle mani, preghiere e suppliche di sogni che somiglino ancora a quelli interrotti dal nostro desiderio, e ingordigia così rara da non poter essere sprecata.
E poi, ancora: viva le rose gialle quando son solo rose gialle, la tua bellezza suprema e superba, la più evidente di questo reame, evviva la luce quando è soffusa e il tramonto quando entra dalla finestra, evviva la paura di condividere un viaggio e di non stare solo lì a rotolarsi nel letto. Benedette siano la radio accesa e i silenzi solenni indetti precisamente all’inizio dei giorni di festa, per imparare a non avere bisogno di distruggere tutto, per imparare a saper solo smontare quando serve, per mettere la paura nelle condizioni di esistere e di dare la sua opinione.
Grazie al cielo per la tua pelle che mi fa piangere e per tutte le stranezze e illogiche tue necessità completamente al limite del mio alfabeto, grazie a questo fuoco esploso in anticipo, ai nostri anni che messi insieme diventano tanti e agli occhi che ho pienissimi per guardare le tue mani e per aspettarle piena di fame. Grazie per avere una paura paralizzante di chi va più di me che temo chi resta senza volere, e per aver scoperto dove soffro il solletico – un dove che io nemmeno conoscevo e che sembra l’anticamera di altri luoghi che senza di te non potrei vedere.
Racconterò ancora, sporgendomi su storie che si portano all’attenzione degli estranei, della tua irragionevolezza e dei giorni beati passati nel letto, delle tue cose tutte improvvise e di quell’anima d’acqua che hai, che ti fa tempesta e che a volte vorrei.
Da piccola qualcuno mi ha spiegato che venivo dalla costola dell’uomo. Io, invece, ho pensato sensato diventare una persona curiosa, e sognare di essere almeno una volta al giorno una persona felice. Mi sono laureata in lettere moderne, ho scritto un romanzo psicologico quando non ero ancora nell’età della ragione, infondo una passione infinita in un gran numero di cose (a volte persino nell’amore!). Amo l’arte in ogni sua forma, la letteratura, la musica (che praticamente mi ha salvato la vita), la compagnia delle persone (che sono sempre lo spettacolo più grande), le serate in spiaggia con la chitarra, i fiori bianchi e brindare più volte possibile a qualcosa (senza mischiare i sentimenti al vino, come mi consigliò tempo addietro un caro Hemingway).