Nel mondo globalizzato e tecnologico in cui viviamo ogni limite è provvisorio, ogni distanza è accorciata da Skype, puoi ordinare con un click del sushi brasiliano comodamente da casa tua in quel di Barletta e anche dal punto di vista linguistico, ogni barriera diventa sempre più debole.
E la contaminazione è cosa buona e giusta, altrimenti – come ben vi avranno insegnato nella prima lezione di filosofia della vostra vita – non ci sarebbe cultura né progresso; ma allo stesso tempo è lecito interrogarsi sui suoi limiti, o in altre parole è lecito chiedersi se sia davvero necessario dire sharare invece che condividere o forwardare invece che inoltrare una email.
Nel primo caso: no, non è necessario (anche se lo faccio, e continuerò a farlo); nel secondo caso seppure non sia necessario dire forwardare ma è già più difficile trovare un sostituto per email, parola inglese integratissima nel vocabolario di qualunque italiano (chissà se succederà anche per #petaloso). Esistono dunque degli scogli intraducibili, parole o espressioni che vanno dritte al cuore della questione senza lasciarsi tradurre, e che racchiudono in poche lettere indizi della cultura e dello stile di vita del popolo che le ha coniate.
A chi non è capitato di dire di qualcosa che è “un po’ troppo strong” o che ti proponessero di andare “a bere qualcosa in quel nuovo rooftop”? È innegabile (ovviamente nulla è dimostrato da statistiche, quello che scrivo è unicamente frutto della mia mente malata e non di fonti attendibili – ci tengo a precisarlo per amor di correttezza) che anche gli stranieri in certi casi usino parole italiane, come:
DIVA: sebbene nel panorama musicale italiano la più alta espressione di diva sia Valerio Scanu, questa parola del nostro vocabolario è ampiamente utilizzata all’estero per indicare – spesso – donne black che accompagnano le loro esibizioni canore con movimenti dell’indice destro come a dire “no,no,no”
Ora mi è venuta anche fame, vi saluto. Kissini per tutti!
in itinere